Ventotto. Kathmandu.

Camminavo per Kathmandu, con i suoi marciapiedi di cemento semi intatto, le strade con le strisce pedonali appena accennate e gli autobus urlanti a raccogliere passeggeri. Ad un angolo ho visto due donne, vestiti tradizionali, accucciate a terra a cambiare un bimbetto smocciolante e sorridente, proprio come si fa nelle colline.

Quei tre me li sono visti sulla copertina di una di quelle riviste tipo Gente o Donna con un titolo ad effetto sulla povertà, sulla donna, o sui paesi del “terzo mondo” – insomma la loro immagine accostata ad articoli piangenti. Capisco perché si faccia, aiuta a bloccare gli occhi su una scena e provocare un certo sentimento di compassione. E molte volte è pure che le storie sono tremende.

Questa scena che ho vista milioni di volte a Rolpa, a Dang, qui mi ha fatto effetto, mi ha fatto sfiorare in testa un’idea di “pena”, come se quel gesto che è giornaliero e “normale” a Rolpa, ora, circondato ora dalla “civiltà” renda le due donne e il bimbo “poveriLa pena – e forse sarò io che sono senza cuore – è un sentimento che ho provato poco in questi mesi. Magari dispiacere, davanti a persone con un tumore, un braccio incancrenito, infezioni agli occhi che portano alla cecità. Ma per quanto sporchi, malconci, “poveri”, questa gente la loro vita dura la vive con dignità ed una forza che mi ha fatto solo sentire ammirazione.

A quell’angolo a vederli su un giornale, probabilmente mi sarebbe venuto in mente un “poveri, che neanche hanno un posto dove cambiare il bambino”. In realtà  difronte a loro non l‘ho pensato, perché in collina si fa cosi e basta, si cambia il bimbo ovunque, ed essere accucciate ad un angolo non necessariamente vuole dire povertà, o mancanza, o degradazione.

Le immagini che arrivano a noi in Europa mi sa che sono tutte un pò così, estrapolate dal contesto, dalla comprensione e la conoscenza del posto in cui le hanno prese per farci solo venire una lacrimuccia e farci sentire più fortunati.

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Al centro di Kathmandu, specialmente a Thamel si concentra l’orda di turisti fricchettoni con la schiena e le gambe nude. E lì si trovano anche tutti i Rishò, Rikshaw – scrivetelo come volete – che chiedono cifre esorbitanti per trasportarti tra le vie della vecchia Kathmandu, e finire a lasciare qualche dollaro nei negozi tutti uguali. Hanno i semi-tettucci a pezzi, con ghirlande di fiori appese alle stecche di legno che li sorreggono, sedili rossi di pelle strappata e clacson fatti a mano con una bottiglia di plastica rovesciata che sputa aria in una trombetta. Rincorrono i turisti, ma anche i nepalesi ricchi, quelli coi bei vestiti, orologi d’oro e buste piene tra le mani.

 

A Kathmandu i mezzi di trasporto sono vari: i Tuc Tuc, gli autobussoni sconquassati e poi i cosiddetti “micro” bianchi i cui ammortizzatori funzionano un po’ meglio. C’è sempre un bambino o un ragazzo penzoloni alla porta, o con la testa fuori dal finestrino e le mani piene di soldi. Non esistono fermate,  ci sono solo posti che si sanno – e io li sto imparando – dove gli autobus rallentano, si avvicinano, urlano la destinazione e a un tuo cenno si fermano per farti salire, accompagnati da un rumore sordo della mano vuota del ragazzino di turno sulla porta mezza aperta.

Inizio a decifrare solo ora, che quasi me ne sto andando, qualcuno di questi segnali che ho sentito in Nepal: in generale sono una lingua tutta speciale, a me sembra ancora un po’ ambigua. Metti le frecce: pensavo fosse così solo fuori da Kathmandu, ma pure qui non vogliono quasi mai dire “attenzione sto girando”, piuttosto invitano la macchina dietro a sorpassare, indicando pure da che lato. Freccia a destra? Sorpassami a destra!

Nelle colline, con le strade a tornante, gli strapiombi, le salite ripide e la visuale ridotta, sono un vero aiuto. I camion sul retro hanno scritte tutte colorate: Play horn” (Suona il clacson) che vuol dire: “suona, io ti faccio il cenno quando puoi e tu mi sorpassi”. A volte invece dicono solo “I Love You” o “See you” e piccino “please play horn”. Una volta ne ho visto uno spettacolare che diceva “Fuck You.

Durante le manovre più complesse, il compare dell’autista si sporge dal finestrino, o scende, per controllare gli spazi, battendo ritmicamente la mano sul lato del camion per dire “vai vai”, ma anche per dire “fermati”. Io non lo so, non lo capisco se la velocità o l’intensità cambia o se magari è un feeling speciale tra lui e l’autista, ma fossi io al volante, sarei già finita nel dirupo.

 

Pure a Kathmandu, per i micro e gli autobus, un battito vuol dire “fermati”, ma anche “sale gente” e sempre uno – o se sei fortunato, due – vuol dire “riparti”. Sui Tuc Tuc dove c’è l’autista solo, devi darla te una botta secca sul soffitto che vuol dire “scendo qui”Insomma a Ratnapark, a Sundhara, dove ci sono i capolinea di tantissimi autobus, è tutto uno sporgersi, un battere, un vociare che non si capisce nulla.

 

Qualche giorno fa il mio autobus è passato per un mega parcheggio, facendo un ampio giro dietro per poi incastrarsi in fila con altri, in mezzo agli urli e alle botte seccheSiamo stati assaliti dalla puzza di rifiuti, di latrine a cielo aperto e di cibo andato a male. Come dappertutto a Kathmandu, anche in questo mega parcheggio ci sono carrettini di legno pieni di frutta fresca tagliata a metà- meloni, cocomeri, papaye, manghi e cetrioli, con la retina sopra a proteggerla, in teoria, dagli insetti. Tutti questi colori e odori di frutta, ti fanno passare il caldo solo a guardarli, ma le puzze che li circondano, e soprattutto le mosche che si divertono a svolazzarci sopra dopo un volo tra l’immondizia e una mucca, ti convincono a lasciare che siano solo gli occhi, e se è fortunato il naso, a goderne la freschezza.

 

Almeno qui c’è meno polvere che a Dang e Rolpa. Nell’ultimo mese, ero costantemente coperta da uno strato di giallo. I miei pantaloni neri, neri non lo erano mai, i jeans assumevano riflessi giallastri. Stendere i panni voleva dire passare il tutto per un trattamento ingiallente, invecchiante. Magari c’è anche gente che paga per queste cose. Insomma la polvere era come l’aria: c’era e basta.

A Kathmandu è diverso. Non c’è quella cipria naturale che viene dalla terra giallastra della giungla accaldata, dal fango seccato. Ma la città è sporca: certi giorni mi ritrovo il naso nero e la pelle dei piedi integrata ad uno sporco profondo e sottile.

Kathmandu mi fa pensare a come Pechino dovesse essere quindici o venti anni fa. Si inizia un po’ a costruire, ma non ancora i palazzi moderni, luccicanti, finti e tutti uguali. E non si butta giù il vecchio per costruire il nuovo. Ci sono storte impalcature di bambù a reggere le costruzioni di mattoni. Mi chiedo come si svilupperà il Nepal, e questi paesi che iniziano a “modernizzarsi” ora, saltando tutti quei passi  che abbiamo fatto noi, arrivando direttamente dalla polvere allo wi-fi, dalla riva del fiume alla tecno-lavatrice, dalle candele al pannello solare.

Internet arriva ovunque. A Liwang, la capitale del distretto di Rolpa dove manca l’acqua corrente e l’elettricità’ va e viene, c’è un lentissimo internet cafè che permette a chi qui c’è nato e magari mai uscito, di vedere quella parte di mondo che si vanta sul web.

In realtà la lavatrice o il frigorifero sono lungi dall’arrivare per colpa della corrente elettrica che è intermittente, ma i cellulari appena entrati in zona hanno già l’opzione mp3, fanno le foto, registrano video, fungono da radiolina e anche nelle colline le prime macchinette sono quelle digitali con gli stra-pixel.

 

Io continuo a dire che la gente qui avrebbe il vantaggio di poter usare tutto questo potendo capirne i limiti, le conseguenze e i difetti. Basterebbe guardare un po’ all’Occidente. Ma a chi interessa quando invece di spendere un pomeriggio su una pila di panni, devi solo spingere un pulsante e stendere i rimasugli? E poi problematizzare tutto qui stanca, è inutile e fa strano, e io credo di avere perso la mia battaglia contro le buste di plastica e le cicche di sigaretta.

 

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