Ventisette. Strani-Ero.

Quando ero a Dang, continuavo a ripetere che mi sarei fatta fare un Kurta (un abito tradizionale) su misura e che lo avrei portato per le vie polverose di Gorahi. In realtà non l‘ho mai fatto, non ho mai davvero avuto voglia.

Marta in Nepal prendeva spunto, cambiava abitudini o si smussava, ma sempre io ero, e sentivo in parte che l’abito mi avrebbe poi davvero potuto rendere monaca – io non lo sono.

Mi sentivo un pò un’africana che viene in Europa e si mette sempre le sue stoffe colorate addosso.

Ho colto sfumature, le ho fatte mie, ho accolto risvolti e armonie, il loro stile si è mescolato al mio, ma è successo tutto solo dopo mesi che mangiavo cibo nepalese e comunque sempre Marta la Gori – “bianca” – sono rimasta.

Di certo non mettevo vestiti scollati o spalle scoperte per rispetto. E in parallelo capisco chi in Occidente possa chiedere ad una donna afghana con il burqa azzurro di scoprirsi almeno il viso. Ma capisco anche bene la necessità di chi viene a viverci in Italia di mantenere la propria identità, il velo in testa, le tuniche lunghe, i vestiti colorati – come ho fatto io per mesi coi miei jeans per non tradire del tutto l’anima che ti esprime e si rappresenta.

Condividere la valle di Gorahi con colleghi Nepalesi che non ci erano nati – seppure nepalesi – ci rendeva tutti stranieri, forestieri. Di sicuro il colore della mia pelle, la forma del viso, i miei vestiti e gli occhiali suggerivano che il mio era un po’ più del lontano che si percorre a piedi. Ma a me creava un senso di comunione andare insieme a scoprire percorsi tra le colline, nuovi negozi dove facevano lo yogurt, un nuovo piatto locale – come se non fossi solo io quella che veniva da fuori e non capiva la lingua.

Ho sempre sentito di venire da un posto così diverso che ad elencare e raccontare tutte le differenze sarebbe stato impossibile. E poi sapevo che sarei potuta tornare a casa, aprire il rubinetto dell’acqua calda, mangiare la lasagna, o prendere un treno.

Il giorno prima della mia partenza, sono passata al volo a casa di Bina prima di scappare al mio albergo per la mia ultima sera in Nepal. Dopo un’ora di macchina tra le viuzze e il traffico eravamo lontane dal pomposo centro di Kathmandu e siamo arrivati a Lalitpur in un villaggio Newari dove abitano lei e la sua famiglia. Donne con la paglia appesa dietro la schiena piegate in avanti passavano davanti a casette storte di fango e legno, infissi scolpiti e patii ombrosi.

E lì mi sono accorta improvvisamente che, per mesi, la comunanza di vita e il condividerla con la mia famiglia nepalese, mi avevano fatto pensare che anche per loro – Bina, Achyut, Bimala, Uttam – la nostra Gorahi fosse posto dove tutto è diverso, meno facile, e che anche loro potessero tornare a casa e mettere i piatti sporchi un lavandino di alluminio con l’acqua corrente e lo scaldabagno. Il fatto che condividessero come me ogni momento, vita e risate, li avevano avvicinati così tanto a me e al mio modo di essere che non li avevo immaginati crescere con una capra in casa e un tetto di paglia.

Casa di Bina era in pieno stile Newari, il piano terra semiaperto, con la madre e altre donne colorate sedute sulle stuoie di paglia a terra, piedi scalzi, tra le mura di mattoni e fango che lasciavano passare pochi raggi di luce.

E’ difficile anche coglierlo nella mia testa e spiegare quanto l’assottigliarsi della distanza culturale, delle diversità tra di noi, non avesse fatto altro che tradursi, nella mia testa, in una mutazione della loro vita in una come la mia, all’occidentale. C’era in me l’idea astrusa, incredibile, che se sei come me, allora anche tu torni a una vita “come la mia”.

Il passaggio nella “vera vita” di Bina a Lalitpur, mi ha fatto sprofondare nel Nepal un’ultima volta, intingendomi nel loro mondo, e ha sgretolato l’ennesimo pezzettino di me e del mio cervello che uniformava ogni immagine a quelle in cui sono cresciuta io.

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